Con sentenza n. 261 del 10 gennaio 2020 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha chiarito che i dati personali, oltre ad essere protetti dalla normativa privacy come diritti fondamentali dell’individuo, sono beni suscettibili di sfruttamento economico da parte dell’interessato e, in quanto tali, sono protetti anche dalla disciplina posta a tutela del consumatore.
La vicenda.
La pronuncia del TAR del Lazio dello scorso gennaio fa seguito alla sanzione che l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (Agcm) aveva comminato a Facebook Inc. e Facebook Ireland Ltd nel 2018 per violazione della disciplina posta a tutela del consumatore (c.d. Codice del Consumo – D.lgs. 206 del 6 settembre 2005).
Nello specifico, con il provv. sanzionatorio n. 27432 del 29.11.2018, l’Agcm aveva ritenuto meritevoli di censura due distinte condotte poste in essere da FB aventi ad oggetto la raccolta, il trasferimento e l’utilizzo a fini commerciali dei dati personali degli utenti ritenute, rispettivamente, ingannevoli e aggressive nei confronti degli utenti/consumatori.
La prima pratica contestata riguardava l’informativa che Facebook era solita rendere ai propri utenti al momento della prima registrazione, ritenuta poco chiara e incompleta soprattutto in relazione all’attività di raccolta e utilizzo dei dati personali per scopi commerciali.
A fronte di un eloquente claim sulla gratuità del servizio offerto (“Iscriviti è gratis e lo sarà per sempre”), l’utente non riceveva una altrettanto chiara informazione in merito alla raccolta e all’utilizzo per finalità commerciali dei suoi dati né, tantomeno, veniva reso edotto del valore commerciale dei medesimi o del fatto che gli stessi rappresentassero, di fatto, la controprestazione del servizio offerto “gratuitamente” dal social network (basti considerare che i ricavi provenienti dalla pubblicità on line basata sulla profilazione degli utenti a partire dai loro dati costituiscono l’intero fatturato di Facebook Ireland Ltd e il 98% del fatturato di Facebook Inc.).
La seconda pratica censurata dall’Agcm era invece quella consistente nella trasmissione dei dati degli utenti di FB a siti web e app di terzi, ai fini di un loro utilizzo per scopi commerciali e di profilazione.
Secondo l’Autorità garante tale trasmissione avveniva con modalità insistenti e tali da condizionare le scelte del consumatore al punto da qualificarla come aggressiva, dal momento che l’opzione relativa alla trasmissione dei dati a terze parti risultava già preselezionata e all’utente era consentito solo l’opt-out.
Facebook Inc. proponeva ricorso innanzi al TAR del Lazio, chiedendo l’annullamento del provvedimento sanzionatorio.
Interessato e consumatore: la duplice natura della persona fisica che conferisce i propri dati a terzi.
Con sentenza n. 261 del 10.1.2020 il TAR del Lazio ha preso posizione su una questione ormai da tempo dibattuta tra gli esperti della materia: i dati personali sono tutelabili soltanto dalla disciplina privacy o, in quanto suscettibili di disposizione in senso negoziale e di conseguente sfruttamento economico, sono protetti anche dalla disciplina a tutela del consumatore? L’interessato, utente di un social network, può essere considerato anche consumatore?
Lo spunto per affrontare il tema è stato fornito proprio dalle censure avanzate dalla piattaforma social in merito alla presunta carenza di potere dell’Agcm nell’emanazione del provvedimento impugnato che, secondo la tesi difensiva, aveva invaso un campo che era di esclusiva competenza dell’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali.
Secondo Facebook tale tesi trovava giustificazione sia nella circostanza che, nel caso di specie, non fosse stato previsto alcun corrispettivo patrimoniale al conferimento dei dati da parte dell’utente (con conseguente mancanza di qualsivoglia interesse economico dei consumatori da tutelare) sia nel fatto che gli obblighi asseritamente violati sarebbero stati attinenti al profilo del trattamento dei dati personali degli utenti, il quale è disciplinato unicamente dal “Regolamento privacy” che, in virtù del principio di specialità, sarebbe in ogni caso in grado di assorbire tutte le condotte contestate.
Il TAR del Lazio ha ritenuto non condivisibile la suesposta ricostruzione, osservando che la stessa si fonda sull’erroneo presupposto per cui il dato personale potrebbe essere tutelato “solo” in quanto diritto fondamentale dell’individuo.
Secondo il Tar “tale approccio sconta una visione parziale delle potenzialità insite nello sfruttamento dei dati personali, che possono altresì costituire un “asset” disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo ad assurgere alla funzione di “controprestazione” in senso tecnico di un contratto” (cfr. sent. Tar Lazio n. 261 del 10.1.2020).
Il dato personale, dunque, viene tutelato sia in quanto espressione di un diritto della personalità dell’individuo – come tale soggetto a specifiche e non rinunciabili forme di protezione quali il diritto di revoca del consenso, di accesso, rettifica, oblìo – sia quale possibile oggetto di atti di disposizione (tra gli operatori del mercato e/o tra questi e gli interessati).
Quali conseguenze porta con sé la patrimonializzazione del dato personale?
Il fenomeno della “patrimonializzazione” del dato personale, tipico delle nuove economie dei mercati digitali, impone agli operatori di rispettare, nelle relative transazioni commerciali, anche gli obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni che la legislazione prevede a protezione del consumatore, il quale deve sempre essere reso edotto dello scambio di prestazioni che è sotteso alla adesione ad un contratto per la fruizione di un servizio, quale è tipicamente quello di utilizzo di un social network.
Dunque, in termini generali, il valore economico dei dati dell’utente impone al professionista il dovere di comunicare al consumatore che le informazioni ricavabili dai suoi dati personali saranno usate per finalità commerciali che vanno al di là della mera utilizzazione da parte sua del social network: in assenza di adeguate informazioni, ovvero nel caso di affermazioni fuorvianti, la pratica posta in essere si qualifica come ingannevole e, di conseguenza, può essere sanzionata ai sensi del D.lgs. 206/2005.
La prospettiva delineata dal TAR è effettivamente innovativa?
Il TAR ha evidenziato che, contrariamente a quanto sostenuto da Facebook, la possibilità di uno sfruttamento economico del dato personale nell’ambito delle piattaforme social e la conseguente necessità di tutelare il consumatore che le utilizzi non è un concetto del tutto nuovo o frutto di una interpretazione “estensiva” di norme sanzionatorie; nessuna contrarietà, dunque, al principio di prevedibilità.
Già negli “Orientamenti per l’attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali” del 25 maggio 2016 la Commissione Europea aveva infatti affermato che “i dati personali, le preferenze dei consumatori e altri contenuti generati dagli utenti hanno un valore economico de facto”.
La stessa Agcm, conformemente alle indicazioni provenienti in ambito comunitario, già nel maggio 2017 aveva sanzionato un social network per pratiche commerciali scorrette nei confronti della propria utenza, osservando che il patrimonio informativo costituito dai dati degli utenti e la profilazione a uso commerciale e per finalità di marketing “acquista, proprio in ragione di tale uso, un valore economico idoneo, dunque, a configurare l’esistenza di un rapporto di consumo tra il Professionista e l’utente” (cfr. il par. 54 del provvedimento Agcom PS10601 dell’11maggio 2017).
Infine va ricordato che l’esistenza di prestazioni corrispettive nei contratti per la fornitura di servizi di social media è stata di recente affermata anche dal Network europeo di autorità nazionali per la cooperazione della tutela dei consumatori di cui al Regolamento 2006/2004/CE che, nell’affrontare il tema della possibile contrarietà delle Condizioni d’Uso della piattaforma Facebook alla Direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti con i consumatori, ha affermato che tale direttiva “si applica a tutti i contratti tra consumatori e professionisti, a prescindere dalla natura onerosa di tali contratti, inclusi i contratti in cui il contenuto e la profilazione generati dal consumatore rappresentano la controprestazione alternativa al denaro” (cfr. pag. 19 della lettera del 9 novembre 2016 inviata a Facebook con cui è stata trasmessa la Posizione Comune del Network, allegata alla memoria di parte ricorrente del 28 giugno 2019).