Cass., sentenza n. 15240/14.
La Corte di Cassazione ha stabilito che il risarcimento dei danni derivanti dall’illegittimo trattamento dei dati personali non si presume ma deve essere provato.
Il Tribunale di primo grado (Bologna), pur riconoscendo l’illegittimità del trattamento dei dati sanitari del ricorrente (mancava l’autorizzazione del Garante al trattamento dei dati sensibili) ha negato il risarcimento del danno in quanto non provato nell’an nè nel quantum.
Il ricorrente ha contestato tale decisione ritenendo che, di fronte ad un illegittimo trattamento di dati personali sensibili, il danno dovrebbe ritenersi in re ipsa senza che necessità di ulteriore prova.
Secondo la S.C. la lesione del diritto alla riservatezza costituisce un fatto illecito ex art. 2043 cc (commesso nell’esercizio di attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 cc).
In base a quanto prescritto dall’art. 15 del Codice privacy chi ritiene di essere stato leso a seguito dell’attività di trattamento dei dati personali che lo riguardano può ottenere il risarcimento dei danni senza dover provare la “colpa” del Titolare che ha trattato i suoi dati, rimanendo tuttavia onerato di fornire la prova di aver subìto un danno (patrimoniale o non patrimoniale), dal momento che il danno in parola è un danno-conseguenza, non un danno-evento. Spetta infine al richiedente anche la prova dell’entità del danno subìto.
In altra sentenza la stessa Corte ha precisato che anche il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti deve sempre essere provato dal danneggiato (v. SS.UU. sent. n. 26972/11).