COVID-19 e lavoro: è lecita la misurazione della temperatura corporea?

diritto di visita

Sabato 14 marzo è stato sottoscritto tra sindacati e imprese, in accordo con il Governo, il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”.

Tale Protocollo prevede alcune specifiche misure che importano un necessario coordinamento con la disciplina vigente in materia di protezione dei dati personali dei lavoratori.

Tra le varie prescrizioni, il Protocollo prevede infatti che, prima di accedere ai luoghi di lavoro, i lavoratori possano essere sottoposti al controllo della temperatura corporea da parte del datore di lavoro.

Laddove essa dovesse risultare superiore ai 37,5° l’accesso non potrà essere consentito e i lavoratori interessati dovranno essere momentaneamente isolati e muniti di mascherine, ferma restando in ogni caso la raccomandazione di non recarsi al Pronto Soccorso e/o nelle infermerie di sede ma di contattare nel più breve tempo possibile il proprio medico curante e seguire le sue indicazioni.

A fronte delle neo introdotte disposizioni di contrasto e prevenzione, finalizzate a coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro si pone, quindi, il problema di stabilire come debbano avvenire i  connessi trattamenti di dati personali per non violare la vigente normativa in materia di privacy.

La rilevazione della temperatura corporea rappresenta un trattamento di dati personali?

Sì, la rilevazione della temperatura corporea dei lavoratori costituisce un trattamento di dati personali appartenenti alle c.d. “particolari categorie di dati personali”, ex dati sensibili, in quanto indicativi dello stato di salute dei lavoratori; pertanto il trattamento dovrà rispettare la disciplina privacy vigente (GDPR e D.lgs 196/2003 e successive mdoifiche e integrazioni).

Quali misure deve adottare il datore di lavoro per non violare la normativa in materia di protezione dei dati personali?

A tal fine si suggerisce al datore di lavoro di rilevare la temperatura ma di NON registrare in modo indistinto e sistematico tutti i dati acquisti.

Come infatti specificato anche nel protocollo d’intesa, l’identificazione del lavoratore e la registrazione del superamento della soglia di temperatura è infatti possibile SOLO qualora ciò sia necessario per documentare le ragioni che ne hanno impedito l’accesso in azienda.

Il datore di lavoro deve inoltre fornire ai lavoratori l’informativa ex art. 13 e ss. GDPR in relazione a questa specifica operazione di trattamento.

Come deve essere resa l’informativa al lavoratore e quali informazioni deve contenere?

In questo caso l’informativa può omettere le informazioni di cui l’interessato sia già in possesso e può essere fornita al lavoratore anche oralmente prima dell’effettuazione della misurazione.

Quanto ai contenuti, con riferimento alla finalità del trattamento potrà essere indicata la prevenzione dal contagio da COVID-19; con riferimento alla base giuridica può essere indicata l’implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio ai sensi dell’art. art. 1, n. 7, lett. d) del DPCM 11 marzo 2020; quanto, infine, alla durata dell’eventuale conservazione dei dati si può far riferimento al termine dello stato d’emergenza.

Il datore di lavoro dovrà inoltre definire misure di sicurezza e organizzative adeguate a proteggere, anche in tale circostanza, i dati personali raccolti.

In particolare, sotto il profilo organizzativo, occorre che il datore di lavoro individui i soggetti che saranno preposti a queste operazioni di trattamento e fornisca loro le istruzioni necessarie per agire, nonostante la situazione di emergenza, nel rispetto della normativa.

A tal fine, si ricorda che i dati così raccolti possono essere trattati esclusivamente per le finalità di prevenzione dal contagio da COVID-19 e non devono essere diffusi o comunicati a terzi al di fuori delle specifiche previsioni di legge (es. in caso di richiesta da parte dell’Autorità sanitaria per la ricostruzione della filiera degli eventuali “contatti stretti di un lavoratore risultato positivo al COVID-19″).

Nell’eventualità in cui si dovesse procedere all’isolamento momentaneo del lavoratore per presenza di sintomi sospetti, il datore di lavoro deve assicurare che ciò avvenga con modalità tali da garantire la sua riservatezza e dignità.

Le medesime garanzie di riservatezza devono essere assicurate anche nel caso in cui sia il lavoratore stesso a comunicare all’ufficio responsabile del personale di aver avuto, al di fuori del contesto aziendale, contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 nonché nel caso in cui il lavoratore sviluppi febbre e sintomi di infezione respiratoria mentre si trova al lavoro.

Il datore di lavoro può richiedere al lavoratore di compilare una autocertificazione in merito alla non provenienza da zone a rischio epidemiologico e alla mancanza di contatti con soggetti risultati positivi al Covid-19 negli ultimi 14 giorni?

Si. Occorre tuttavia, ancora una volta, prestare attenzione alla disciplina sul trattamento dei dati personali, in quanto anche l’acquisizione di una simile dichiarazione costituisce un trattamento di dati personali.

Si applicano le indicazioni sopra descritte e, nello specifico, si suggerisce di raccogliere anche in questo caso solamente i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla finalità di prevenzione del contagio da COVID-19.

A titolo esemplificativo, se si richiede il rilascio di una dichiarazione sui contatti con persone risultate positive al COVID-19, occorre astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva; se si richiede una dichiarazione sulla provenienza da zone a rischio epidemiologico, è necessario astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alle specificità dei luoghi.