Con sentenza n. 2168/2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad un dipendente delle Poste Italiane che aveva patteggiato una condanna per violenza sessuale.
Tale sentenza è stata pronunciata dalla Suprema Corte a seguito dell’impugnazione del licenziamento intimato al dipendente a causa della sua condanna alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, con sentenza del Tribunale di Napoli passata in giudicato, per il delitto continuato di cui agli artt. 609 bis c.p. e 609 septies c.p., comma 4, n. 2. Il licenziamento era stato comminato perché l’azienda ha ritenuto che i medesimi fatti, essendo rilevanti anche in sede disciplinare e riflettendosi indirettamente sul rapporto di lavoro, integrassero gravissima violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2015 c.c., espressamente richiamati dall’art. 51 c.c.n.l. dell’11.1.2001.
Il lavoratore aveva dedotto l’illegittimità del provvedimento espulsivo per vari motivi: – i fatti oggetto del procedimento penale non potevano considerarsi provati in quanto l’accusa si basava solo sulle dichiarazioni rese dalle due presunte parti lese, non supportate da alcun elemento di prova e di scarsa attendibilità tenuto conto del contesto di abbandono e di degrado socio-culturale in cui vivevano le donne;
– i fatti non potevano considerarsi accertati in sede penale, in quanto il relativo procedimento era stato definito con sentenza di patteggiamento, la quale non implicava alcuna affermazione di responsabilità;
– i fatti addebitati non potevano considerarsi negazione degli elementi del rapporto o integrazione di una giusta causa di recesso, considerato che le mansioni espletate non implicavano contatti con terzi e con il pubblico e venivano espletate esclusivamente all’interno dell’azienda, nè avevano alcuna relazione con l’episodio oggetto del procedimento penale, il quale aveva comunque carattere isolato.
La Suprema Corte non ha ritenuto di accogliere la tesi del ricorrente richiamando anche una pronuncia della Corte Costituzionale: “Nella sentenza 18 dicembre 2009 n. 336 la Corte Costituzionale ha affermato che la circostanza che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito della regiudicanda penale, accetti una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare il fatto e la propria responsabilità. Deve dunque affermarsi che anche la scelta del patteggiamento costituisca essa stessa esercizio del diritto di difesa“.
Quanto alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio disciplinare, la Corte di Cassazione si è così espressa: “Secondo costante giurisprudenza di questa Corte, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (v. tra le più recenti, Cass. n. 15889 del 2011). […] Benchè la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. “di patteggiamento” ex art. 444 cod. proc. pen., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena” (Cass. n. 9458 del 2010; Cass. n. 7866 del 2008).
La Corte ha, inoltre, precisato che: “i fatti, per il forte disvalore sociale che li connotava, erano indubbiamente idonei ad avere negativi riflessi sull’immagine dell’Azienda, tra l’altro titolare di un servizio pubblico capillarmente diffuso e sulla fiducia della clientela nella correttezza dei suoi dipendenti“.
Sulla base di questi principi di diritto la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese di lite.