Con il termine “esterovestizione” si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una persona fisica o di una società all’estero – solitamente in un Paese con un trattamento fiscale più vantaggioso rispetto a quello nazionale – allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime tributario previsto nel Paese di reale appartenenza (ex multis Cassazione civile Sentenza, Sez. Trib., 07/02/2013, n. 2869; Commiss. Trib. Prov. Lombardia Milano Sez. I, 25/03/2015).
Con sentenza n. 13114/2018 del 21 marzo 2018 la Cassazione è tornata a pronunciarsi su tale fenomeno chiarendo che non è sufficiente avere la residenza anagrafica in un Paese estero per sottrarsi al pagamento delle imposte in Italia: commette infatti il reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74/2000 il soggetto che, pur avendo in Italia il centro principale dei propri affari, non dichiari i redditi ivi prodotti al Fisco sul presupposto di avere la residenza anagrafica in un altro Stato.
La vicenda.
Protagonista della vicenda è una persona fisica che, pur avendo in Italia il centro principale dei propri interessi nonché il fulcro della propria attività lavorativa, aveva omesso di dichiarare al Fisco italiano i redditi ivi prodotti sul presupposto che, avendo la residenza anagrafica in Svizzera, titolare della pretesa impositiva nei suoi confronti fosse unicamente l’Autorità fiscale cantonale elvetica.
A seguito delle indagini condotte dalla Gdf era stato disposto a suo carico il sequestro preventivo di una somma ingente – pari all’importo contestatogli come imposta IRPEF evasa negli anni di imposta dal 2011 al 2013 – con conseguente formulazione dell’ipotesi accusatoria di cui all’art. 5 D.lgs 74/2000.
Con ordinanza del 27.7.2017 il Tribunale di Ferrara, adìto in sede di riesame, confermava il sequestro evidenziando come dalle indagini fossero emersi una serie di “elementi evidenzianti che il centro principale dei suoi interessi così come il fulcro della sua attività lavorativa fosse in Italia, malgrado la residenza anagrafica in Svizzera, e che pertanto dovesse essere soggetto all’imposizione tributaria nazionale”, in luogo della più favorevole disciplina elvetica. Avverso la suddetta ordinanza veniva proposto ricorso per Cassazione, successivamente rigettato con sentenza n. 13114/2018 del 21 marzo 2018.
I motivi dell’impugnazione.
In primo luogo veniva dedotta la violazione della Convenzione tra la Svizzera e l’Italia del 1976 (ratificata con l. 23 dicembre 1978 n. 943), in particolare dell’Art. 4 della medesima, secondo cui il Paese titolare della pretesa impositiva è solamente quello in cui il contribuente ha la residenza. Ne derivava infatti, a detta del Ricorrente, che solo la Svizzera avrebbe potuto essere considerata titolare di una pretesa impositiva fiscale nei suoi confronti essendo ivi fissata la sua residenza anagrafica e, a supporto di tale conclusione, venivano prodotte alcune attestazioni rilasciate dall’autorità fiscale cantonale elvetica in cui si dichiarava che l’indagato era residente a Ginevra agli effetti della Convenzione bilaterale con l’Italia e che, di conseguenza, le provvigioni corrisposte al ricorrente dalle imprese non contemplavano, in conformità al regime fiscale svizzero, nè IVA nè ritenuta di acconto.
In secondo luogo il Ricorrente rilevava in ogni caso l’insussistenza di elementi sufficienti ed idonei a ritenere localizzato in Italia il suo domicilio – inteso come centro principale degli affari e degli interessi – dal momento che:
a) il numero degli immobili di cui era titolare in Italia corrispondeva a quelli di cui era proprietario in Svizzera, a Parigi e a New York;
b) le società di distribuzione dei suoi prodotti avevano sede a Ginevra e a Parigi, non in Italia;
c) i suoi figli non erano residenti in Italia;
d) egli non era residente in Italia nulla essendo stato dimostrato in ordine alla sua dimora abituale in Italia, sussistente invece in Svizzera, dove si concentravano i suoi interessi economici e la sua vita affettiva.
A detta del Ricorrente da tali elementi non si poteva che desumere la legittimità della sola imposizione fiscale elvetica, conclusione peraltro che non muterebbe nemmeno “applicando il secondo comma lettera c) dell’art. 4 della Convenzione secondo cui se la persona soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati, ovvero non soggiorna in alcuno di essi, è considerata residente dello Stato del quale ha la nazionalità” (così Cass. 13114/2018), avendo egli nazionalità svizzera.
La decisione della Suprema Corte.
Con sentenza n. 13114/2018 la Cassazione ha chiarito preliminarmente che, ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 2 TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) stabilisce che soggetti passivi dell’imposta sono le persone fisiche sia residenti che non residenti nel territorio dello Stato; l’unica differenza sta nel fatto che mentre nei confronti dei primi l’imposta si applica a tutti i redditi posseduti, nei confronti dei secondi si applica solamente ai redditi prodotti entro i confini dello Stato.
Ebbene, ai fini del TUIR sono considerate residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta – cioè per almeno 183 giorni (184 per gli anni bisestili) – sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o che hanno nel territorio dello Stato il domicilio (inteso come sede principale degli affari e interessi) o la residenza (intesa come dimora abituale); viceversa sono definiti “non residenti” coloro che o non sono iscritti nelle anagrafi della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta o ivi non hanno residenza nè domicilio, con l’espressa precisazione che se manca anche uno soltanto dei suddetti requisiti, il contribuente viene automaticamente considerato residente nel territorio Italiano ai fini dell’imposta sui redditi.
Come ricordato dalla Suprema Corte, è sufficiente avere in Italia anche solo il domicilio o la residenza per essere considerati soggetti alla relativa disciplina fiscale; in altre parole, essendo tre i presupposti indicati dalla legge in via alternativa ai fini dell’assoggettabilità all’imposta in esame (iscrizione nell’anagrafe, residenza o domicilio nel territorio dello Stato), ne discende che la mera iscrizione all’anagrafe di un altro Stato non è elemento di per sé “determinante per escluderne la residenza fiscale in Italia allorchè si tratti di soggetto che abbia nel territorio dello Stato la sua dimora abituale ovvero il proprio domicilio, inteso come sede principale dei propri affari ed interessi economici, così come delle proprie relazioni personali, dovendo il carattere soggettivo ed elettivo della scelta dell’interessato essere a tal fine contemperato con le esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi” (Cass. Civ., Sez.5, n.14434 del 25.6.2010).
Per quanto concerne poi la richiamata Convenzione bilaterale stipulata tra Italia e Svizzera nel 1976, la Cassazione ha chiarito che essa ha la funzione, al pari di tutte le convenzioni bilaterali in materia, di evitare la doppia imposizione, ragione per cui il concetto di residenza sul quale si fonda l’obbligo fiscale non muta. Anzi, proprio l’art. 4 della Convenzione, ai fini della definizione di un soggetto come residente in uno dei due Stati contraenti, individua criteri del tutto analoghi e conformi a quelli stabiliti dalla legislazione interna, facendo esplicito riferimento alle nozioni di domicilio, residenza ovvero a criteri di analoga natura per la cui definizione rimanda espressamente alla normativa degli Stati contraenti; inoltre la medesima norma prevede espressamente anche l’ipotesi – in tal modo dando implicitamente conto della possibile inconsistenza del dato anagrafico – in cui lo stesso soggetto possa essere considerato residente da entrambi gli Stati, indicando i criteri da adottare per la soluzione del conflitto.
Ciò premesso e considerato, con riferimento al caso concreto sottopostole, la Cassazione ha rilevato che la soggezione del Ricorrente al rispetto della disciplina fiscale italiana derivava dalla considerazione di una serie di elementi fattuali da cui si era potuto evincere non solo che egli avesse stabile dimora in Italia (segnatamente a Ferrara) ma anche che ivi egli avesse il suo domicilio inteso come centro principale dei suoi affari e interessi, atteso che a Ferrara vi era il suo studio di design, che in Italia era titolare di plurimi conti correnti in proprio o tramite le società nelle quali era cointeressato, che utilizzava frequentemente in territorio italiano le carte di credito e che altrettanto frequentemente percorreva la rete autostradale italiana.
Tali elementi, tra loro convergenti e puntualmente indicati dai giudici di merito in conformità ai requisiti previsti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, e art. 43 cod. civ., erano, a detta della Suprema Corte, rimasti incontestati dal Ricorrente che si era solamente limitato a difendersi allegando la sua residenza anagrafica in Svizzera. Nè i documenti dell’autorità fiscale cantonale svizzera prodotti dal Ricorrente potevano essere considerati rilevanti ai fini del giudizio, dal momento che da essi non poteva desumersi l’avvenuto pagamento delle imposte in Svizzera relativamente al reddito su cui si fondava la contestazione di omessa dichiarazione; infatti solamente la prova dell’avvenuto pagamento delle relative imposte in Svizzera avrebbe semmai consentito di ritenere fondata l’eccepita violazione del divieto di doppia imposizione.
Per tali ragioni la Corte ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.