Con sentenza n. 26023/2019 pubblicata il 15/10/2019 la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento intimato ad una lavoratrice che aveva trasmesso clandestinamente alcuni documenti aziendali riservati a cui la stessa, peraltro, non avrebbe avuto ragione di accedere.
La vicenda.
Con sentenza n. 228/2018 del 5 aprile 2018 la Corte di Appello di L’ Aquila aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato da una banca ad una lavoratrice, rea di avere consegnato con modalità clandestine all’ex direttore generale (all’epoca coinvolto in procedimenti penali) alcuni documenti aziendali riservati della banca alle cui dipendenze operava e a cui la lavoratrice non avrebbe avuto ragione di accedere.
Nel caso di specie la Corte d’Appello aveva reputato particolarmente grave la condotta contestata alla lavoratrice (e, di conseguenza, adeguata la sanzione espulsiva adottata) in considerazione non solo del fatto che le sue condotte si erano poste in evidente violazione degli obblighi di fedeltà e riservatezza che sono imposti in linea generale a tutti i dipendenti di un’Azienda ma anche del fatto che gli organi amministrativi e di controllo della banca erano stati sciolti poco tempo prima e che la stessa era stata sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria a causa di gravi irregolarità, riconducibili anche all’ex direttore generale.
Avverso la suddetta sentenza la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione, successivamente rigettato con sentenza n. 26023/2019, pubblicata il 15/10/2019.
Le motivazioni della Cassazione.
Nel contestare le deduzioni poste a fondamento del ricorso, la Cassazione ha precisato che “dal collegamento dell’obbligo di fedeltà, di cui all’art. 2105 cod. civ., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto” (Cass. n. 6957/2005).
Secondo la Suprema Corte quindi, deve essere interpretato estensivamente il dettato dell’art. 2501 c.c., a norma del quale il prestatore di lavoro non deve “divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio” e la gravità della lesione dell’elemento fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro deve essere valutata caso per caso dal giudice di merito.
In particolare, per valutarne la gravità, il Giudice di merito deve prendere in esame tutti gli “aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto” (Cass. n. 1475/2004).
Nello specifico la Corte ha sottolineato anche che, con riferimento ai dipendenti degli istituti di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con maggiore rigore e anche a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, proprio in ragione della maggiore intensità che caratterizza il rapporto fiduciario in tale settore.