Lavoro: i limiti ai controlli svolti da investigatori privati

Il Tribunale di Padova, con l’ordinanza n. 6031 del 4 ottobre 2019, ha chiarito quali sono le condizioni di liceità per lo svolgimento di controlli difensivi sul lavoratore mediante investigatori privati.

La vicenda.

Un lavoratore impugnava innanzi al Tribunale di Padova il licenziamento intimatogli per giusta causa sulla base delle risultanze emerse dai controlli difensivi commissionati dal datore di lavoro ad una società di investigazione privata.

Nello specifico il datore di lavoro, dopo aver riscontrato alcune incongruenze nell’attestazione, da parte del lavoratore, degli orari di inizio e fine della giornata lavorativa (spesso segnati manualmente anziché con l’apposita timbratura elettronica tramite badge), aveva incaricato un’agenzia investigativa di effettuare delle verifiche.

Dalle indagini era emerso che il lavoratore spesso non rispettava l’orario di lavoro (sia in entrata che in uscita) e che dedicava inoltre parte della sua giornata lavorativa a spese personali e frequentazioni di bar e ristoranti, attestando falsamente la propria presenza in servizio.

Il Tribunale di Padova, pronunciandosi sul ricorso del lavoratore, ha confermato la legittimità del licenziamento e ha colto l’occasione per chiarire alcuni punti controversi in merito alle condizioni di liceità per lo svolgimento di controlli difensivi sui lavoratori a mezzo di investigatori privati.

I controlli effettuati mediante investigatori privati rientrano nell’ambito di applicabilità dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori?

Per prima cosa il Tribunale ha chiarito che l’impiego di personale di un’agenzia investigativa privata per l’accertamento della sussistenza di fatti rilevanti sotto il profilo disciplinare non integra nè l’ipotesi di utilizzazione di “impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” (di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori) né quella di utilizzazione di “guardie particolari giurate, di cui agli articoli 133 e seguenti del testo unico approvato con regio decreto n. 18 giugno 1931, numero 773” (di cui all’art. 2 dello Statuto dei Lavoratori).

La fattispecie in esame integra, semmai, la diversa ipotesi di impiego di personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa, in relazione al quale l’art. 3 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce che “i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa debbono essere comunicati ai lavoratori interessati“.

Nei casi analoghi a quello in esame, tuttavia, i controllori (agenti investigativi) non fanno parte dell’organico aziendale e i loro nomi non vengono certo comunicati in via preventiva ai lavoratori interessati.

Come si può, quindi, giustificare la legittimità di tali controlli?

Fermo restando il divieto posto dall’ art. 3 dello Statuto dei lavoratori di ogni controllo che sia diretto a verificare il corretto adempimento, da parte del lavoratore, degli obblighi contrattuali imposti dal contratto di lavoro, in particolare con riferimento al diligente adempimento delle mansioni assegnate (vedi Cass. n. 21621/2018), il diritto vivente consolidatosi in seno alla giurisprudenza, sia di merito (v. Corte d’Appello di Roma, sent. del 13.2.2013; Tribunale di Velletri, sent. del 26.3.2006; Tribunale di Venezia, ord. del 8.10.2018) che di legittimità, consente di ritenere che il rigoroso divieto di controllo occulto sancito dall’art. 3 sull’attività lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali non operi nel caso in cui il ricorso ad investigatori privati sia finalizzato a verificare comportamenti che possono configurare condotte illecite, quali ad esempio la violazione del divieto di concorrenza (v. Cass. n. 12810/2017) ovvero l’utilizzo improprio, da parte di un dipendente, di permessi di cui all’art. 33 della legge n. 104/1992 (v. Cass. il 4984/2014) e ciò, a maggior ragione, nel caso in cui si tratti di comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti (v. Cass. n. 5269 e 14383/2000).

Si tratta, in buona sostanza, dell’estensione all’ambito applicativo dell’art. 3 della dottrina dei cosiddetti controlli difensivi, tradizionalmente elaborata con riferimento all’interpretazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori nella formulazione precedente alla novella introdotta dall’art. 23, co. 1 del  d.lgs. 151/2015.

Ciò premesso, per stabilire se, nel caso di specie, fossero legittimi i controlli effettuati sul lavoratore, il Tribunale di Padova ha dovuto occuparsi in primo luogo della qualificazione della condotta addebitata al lavoratore, al fine di stabilire se essa costituisse un mero inadempimento contrattuale ovvero una autonoma fattispecie di illecito civile, amministrativo o penale.

La rilevanza penale della condotta del lavoratore che – falsamente – attesta la sua presenza in ufficio.

Il Tribunale ha chiarito che le condotte contestate al ricorrente risultavano costituire un atto illecito rilevante non solo sotto il profilo dell’esatto adempimento degli obblighi scaturenti dal contratto di lavoro, ma anche sotto il profilo penalistico.

Come affermato dalla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, è configurabile il reato di truffa qualora il lavoratore, attestando falsamente la propria presenza continuativa in servizio, assicuri un orario ridotto percependo, ciononostante, per intero il compenso stabilito in misura forfettaria per la giornata lavorativa completa, determinando così un danno economico per il datore di lavoro (v. ex multis, Cass. n. 52007 del 24/11/2016).

Su tali premesse, il controllo operato dal datore di lavoro nel caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Padova rientra senz’altro nel concetto di controllo difensivo in quanto indirizzato a verificare non puramente e semplicemente il corretto adempimento dell’obbligazione lavorativa privatistica da parte del lavoratore, ovvero eventuali effetti lesivi di interessi aziendali che siano pur sempre diretta conseguenza della violazione del contratto di lavoro (vedi, in questo senso, sentenza della Corte di Cassazione 19.922/2016) bensì la commissione di fatti integanti il reato di truffa ex art. 640 c.p.

Le fotografie scattate dagli investigatori rientrano nell’ambito di operatività dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori?

Il Tribunale ha altresì chiarito che l’utilizzazione dello strumento fotografico da parte degli agenti investigativi non ricade nell’ambito applicativo dell’art. 4, co. 1, dello Statuto dei Lavoratori il quale si riferisce soltanto agli strumenti di controllo a distanza che siano stabilmente installati e mediante i quali venga effettuato un monitoraggio costante, continuativo e indiscriminato sui luoghi in cui la prestazione lavorativa deve essere eseguita.

Detta norma non può invece trovare applicazione con riferimento ad atti di controllo tecnologico effettuati ad hoc tramite investigatore privato, senza l’installazione stabile e continuativa di strumenti di controllo a distanza.

Come devono essere svolti i controlli per non ledere la privacy del lavoratore?

A tal proposito il Tribunale di Padova, uniformandosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), ha chiarito che, dovendosi in simili ipotesi individuare il corretto bilanciamento tra l’interesse del datore di lavoro a indagare su condotte penalmente illecite, lesive del patrimonio aziendale e  l’interesse del lavoratore alla tutela della riservatezza, è fondamentale che i controlli vengano effettuati nel rispetto del principio di proporzionalità.

I controlli, dunque, non devono risolversi in un monitoraggio costante e indistinto di tutti i dipendenti ma devono essere specificamente indirizzati nei confronti del lavoratore su cui si sia concentrato il sospetto, supportato da evidenze di natura oggettiva, della commissione di condotte penalmente illecite precisamente delineate.