Con sentenza n. 81 del 3/01/2020 la Cassazione ha chiarito che commette il reato di bancarotta preferenziale ex art. 216 comma 3 l. fall. l’amministratore che si autoliquida i compensi pur essendo consapevole dello stato di insolvenza in cui versa la società.
La vicenda.
Il presidente e il vicepresidente del CDA di una società che, nel 2012, era stata dichiarata fallita venivano condannati per il reato di bancarotta preferenziale dapprima dal Tribunale di Udine e, successivamente, anche dalla Corte di Appello di Trieste.
L’accusa rivolta nei loro confronti era quella di aver continuato ad autoliquidarsi somme a titolo di compenso nei due anni precedenti la dichiarazione di fallimento malgrado lo stato di insolvenza in cui la società versava già da tempo.
Avverso tale decisione gli imputati proponevano ricorso per Cassazione, deducendo la presenza di un vizio di motivazione nella sentenza di secondo grado laddove la Corte d’Appello, riportando le dichiarazioni del curatore, aveva affermato che il tempo intercorso tra il manifestarsi della crisi (giugno 2010) e la chiusura della società (primavera 2011) fosse un tempo “plausibile” per valutare l’opportunità di chiudere la medesima, proporre un concordato e portare a termine alcuni lavori con gli enti pubblici.
Gli amministratori respingevano le accuse affermando la mancanza dell’elemento soggettivo (richiesto dalla fattispecie di reato della bancarotta preferenziale) in quanto, sostenevano, non si erano rappresentati l’irreversibilità della crisi ma ne avevano avuto solamente le prime avvisaglie.
A sostegno di tale tesi gli imputati adducevano sia il fatto che il bilancio del 2009 si era chiuso con un leggero utile mentre solo quello del 2010 aveva chiuso in negativo, sia la circostanza che già da un anno prima della dichiarazione di fallimento essi avevano cessato di percepire compensi per la carica ricoperta.
Con sentenza n. 81/2020 la Cassazione ha respinto il ricorso dichiarandolo infondato.
Cosa si intende per bancarotta preferenziale?
Ai sensi dell’art. 216, co. 3, l. fall. commette il reato di bancarotta preferenziale chi, prima o durante la procedura fallimentare, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione allo scopo di favorire, a danno di altri creditori, alcuni di essi (ex multis v. Cass. n. 15712/2014).
Ai fini della configurabilità del reato è essenziale che si verifichi la violazione della par condicio creditorum (espressione del principio inteso ad evitare disparità di trattamento che non trovino giustificazione nelle cause legittime di prelazione, fatte salve dall’art. 2741 c.c.) e che, conseguentemente, si manifesti una alterazione rispetto all’ordine di soddisfazione dei creditori stabilito dalla legge.
In simili ipotesi, la diminuzione del patrimonio sociale viene considerata illecita non perché indebita e/o dettata da finalità depauperative (come invece accade nella bancarotta per distrazione) ma perchè funzionale a soddisfare, con precedenza rispetto agli altri, creditori che siano privi di titoli preferenziali.
Per quanto concerne l’elemento psicologico, ai fini della configurabilità del reato in esame è richiesto il dolo specifico, costituito dalla volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con la consapevole accettazione dell’eventualità di un danno per gli altri, secondo lo schema tipico del dolo eventuale.
Tanto premesso, secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’amministratore che, in situazione di insolvenza della società, percepisce una somma congrua rispetto al lavoro prestato non risponde di bancarotta fraudolenta bensì di bancarotta preferenziale (ex multis Cass. n. 48017/2015; Cass. n. 21570/2010).
Le motivazioni del rigetto del ricorso in Cassazione.
Con la sopracitata sent. n. 81/2020 la Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dagli imputati osservando che la motivazione non era né manifestamente illogica né contraddittoria.
Al contrario, a detta della Suprema Corte, era sufficiente a ritenere integrato nel caso di specie il reato di bancarotta preferenziale la circostanza che da giugno 2010 ci fossero già stati segnali di crisi ma, ciò nonostante, gli imputati avessero continuato ad attribuirsi somme a titolo di compenso pur essendo consapevoli dell’esistenza di creditori privilegiati e senza che ciò avesse alcuna valenza nell’ottica della salvaguardia dell’attività aziendale.
In altri termini, scegliendo di privilegiare la propria posizione creditoria a discapito di quella degli altri, essi avevano dimostrato di aver accettato il rischio di compromettere le ragioni degli altri creditori, rendendosi così colpevoli di bancarotta preferenziale.
Quanto, invece, alla loro supposta non consapevolezza della crisi, a detta della Cassazione l’asserzione secondo la quale essa non sarebbe stata da loro percepibile costituiva un’affermazione in fatto che non trovava alcun riscontro negli accertamenti svolti.