di Raffaello Lupi, http://www.ilsole24ore.com
Le responsabilità del professionista attestatore si inquadrano in uno schema ricorrente – e forse gattopardesco – di travaso di decisioni dalle autorità pubbliche a soggetti privati. È come se le autorità pubbliche si chiamassero fuori, delegando scelte impegnative e delicate, e poi sanzionando il delegato nell’ipotesi in cui qualcosa, a posteriori, andasse male. In questa cornice pseudo-privatistica le autorità realizzano il proprio sogno proibito di non decidere o decidere sotto copertura, facendo riferimento a valutazioni di altri. È una tendenza latente in tutti i settori della macchina pubblica italiana, che si conferma nella possibilità delle istituzioni di fare riferimento alle valutazioni del professionista attestatore. Quest’ultimo si espone sulla situazione patrimoniale e le prospettive dell’azienda, diventando un capro espiatorio su cui scaricare le responsabilità. La tendenza delle pubbliche autorità a cautelarsi rispetto alle incertezze di valutazioni economiche comunque sfuggenti – già frequente nella prassi – ha avuto nuovi appigli con la riforma, caratterizzata da una cornice di privatizzazione della crisi di impresa. Questo contesto ha esternalizzato ulteriori responsabilità e sanzioni su figure esterne, formalmente non provviste di autorità, come appunto il professionista attestatore. Probabilmente la riforma è un passo in avanti, una formalizzazione di tendenze precedenti a non decidere, comunque diffuse nella prassi, e derivanti da una idea distorta di «governo della legge». Da una simile idea nasce la preoccupazione che, se le cose vanno bene, sia merito della legge e non di chi ha deciso, criticato invece se nasce qualche problema. Ciò provoca sempre crescenti deresponsabilizzazioni nelle autorità chiamate a prendere decisioni di opportunità, non giustificabili con meccanici richiami alla normativa, come può fare la magistratura giudicante e non invece quella fallimentare. Quest’ultima non è infatti nella posizione statica tipica del giudice, ma deve prendere decisioni di opportunità economica prospettica, soggette a potenziali critiche di negligenza, basate sul «senno di poi» se qualcosa dovesse andare male. Tali responsabilità possono essere oggi meglio scaricate sul professionista attestatore, che in linea di principio, in materia fallimentare come in quella tributaria, può essere coinvolto facilmente finché si tratta di circostanze che l’imprenditore intendeva palesare, come la consistenza effettiva delle attività, e l’esistenza delle passività. Se il professionista, usando l’ordinaria diligenza, avrebbe dovuto rendersi conto dell’inesistenza delle attività, della loro macroscopica sopravvalutazione, o della fittizi età della passività, è concepibile il falso, uno dei concetti più sfuggenti dell’universo giuridico. Gradualmente però si passa alle responsabilità non tanto di un professionista attestatore, ma di un fantomatico professionista investigatore, che avrebbe dovuto rendersi conto dell’esistenza di elementi patrimoniali, positivi o negativi, di cui non era stato informato direttamente, ma di cui avrebbe potuto (spesso col senno di poi) avere conoscenza in base alle circostanze palesi, o che gli erano state comunicate. Possiamo immaginare quante volte risuonerà, per il professionista attestatore, il ben noto ritornello del «non poteva non sapere». Se poi passiamo alla valutazione delle prospettive economiche dell’attività ci rendiamo conto di tutte le insidie connesse a queste scelte di opportunità valutativa che tutti, in questo contesto deresponsabilizzante, cercano di scaricare su altri.