di Marina Castellaneta, http://www.ilsole24ore.com
Il divieto stabilito dalla legge n. 40 del 2004 che impedisce il ricorso alla fecondanzione omologa in vitro a una coppia fertile portatrice sana di fibrosi cistica è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha affermato la Corte di Strasburgo nella sentenza Costa e Pavan contro Italia, depositata oggi (ricorso n. 54270/10).
Una sentenza di grande impatto sulla legge n. 40 tenendo conto che le norme della Convenzione europea hanno un rango subcostituzionale nel nostro ordinamento e, quindi, in caso di contrarietà tra leggi interne e Convenzione, le disposizioni nazionali devono essere dichiarate incostituzionali per contrarietà all’articolo 117 della Costituzione. Non solo. I giudici nazionali devono interpretare le norme interne alla luce delle disposizioni convenzionali come interpretate da Strasburgo.
Alla Corte europea si era rivolta una coppia che dopo aver accertato di essere portatrice sana di fibrosi cistica, una malattia genetica, aveva chiesto di ricorrere alla fecondazione medicalmente assistita di tipo omologo per effettuare una diagnosi genetica preimpianto. Una scelta impedita dalla legge n. 40 che ammette il ricorso a questa pratica solo nel caso di virus di epatite B e C e di malattie virali trasmissibili per via sessuale. Di qui la scelta della coppia di rivolgersi a Strasburgo.
Che ha dato ragione ai due coniugi e, soprattutto, ha bocciato la legge italiana definita, senza esitazioni, incoerente. Per Strasburgo, infatti, l’Italia ha violato l’articolo 8 della Convenzione che riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare nel quale rientra il diritto di una coppia ad avere un bambino che non sia affetto da malattie genetiche. Bocciata la linea di difesa del Governo: incomprensibile il richiamo alla libertà di coscienza dei medici e alla necessità di evitare i rischi dell’eugenetica. Il divieto frapposto dalla legge, infatti, non fa altro che spingere una donna a ricorrere all’aborto terapeutico nei casi di malattia del feto, con danni anche psicologici sulla madre e una sicura violazione del diritto al rispetto della vita familiare.
E’ vero che gli Stati godono, nei casi in cui vengano in rilievo aspetti di carattere etico, di un ampio margine di discrezionalità, ma nel rispetto della Convenzione europea. Senza dimenticare che tra 32 Stati del Consiglio d’Europa solo 3 (Italia, Svizzera e Austria) vietano il ricorso alla diagnosi preimpianto. Di qui la condanna all’Italia e l’obbligo per lo Stato di versare ai ricorrenti 15mila euro per i danni non patrimoniali e 2.500 euro per le spese processuali. La pronuncia sarà definitiva tra 3 mesi, periodo entro il quale è possibile il ricorso alla Grande Camera.
In precedenza, con la sentenza del 1° aprile 2010 (S.H. e altri contro Austria), la Corte europea aveva ritenuto contrario alla Convenzione il divieto assoluto di ricorrere alla fecondazione eterologa stabilito nella legge austriaca. La Grande Camera poi ribalterà il giudizio nel 2011.